Soli, mai: viaggio negli Appennini tra incontri e piani saltati
Facciamo tutti le stesse cose, sempre. Ci mancherebbe - in fondo siamo tutti mammiferi - non fosse che, come se non bastasse, le facciamo anche per gli stessi motivi. Tutti, in estate, siamo colpiti da un’improvvisa voglia di Settimana Enigmistica durante il cambio di stagione di playlist su Spotify. E tutti, dopo aver sostituito ogni De Gregori con Jovanotti, prima o poi andiamo in montagna. I motivi che ci raccontiamo vanno sempre dalla non meglio definita voglia di “aria pura” al piacere di stare finalmente un po’ da soli. Io, che di solito faccio più o meno le stesse cose degli altri, in montagna ci vado sempre, e in Italia mi è capitato sia di guardarne la testa sulle Alpi, sia di contarne le vertebre lungo l’Appennino.
Sui sentieri alpini la ricerca di solitudine è facilmente appagata, il paesaggio è più maestoso, lo spazio dilatato, e all’alba e al tramonto i riflessi rosati dei picchi li fanno sembrare retroilluminati; al contrario, tutto questo manca lungo i più vecchi Appennini, dove non ci sono quelle vette che ti squadrano con arroganza, mentre mostrano i muscoli minacciose. Su queste montagne si trova però qualcos’altro, qualcosa di unico: la perenne, rassicurante sensazione di non essere mai soli. Che significa anche la perenne sensazione di essere osservati, giudicati. Uomini, fauna e bosco sono stretti assieme, costretti a una convivenza che chiunque abbia attraversato quelle terre ha percepito attorno a sé. Quando cammini fra quegli alberi c’è sempre un rumore, che sia il verso di un animale, la voce di un pastore o il passo di un altro appenninista. Nonostante questo, alla fine di quest’ultima estate ho deciso di andare sul Vettore, tra Marche e Umbria, sempre per quella vecchia storia della solitudine.
Parto da Roma, passo Rieti e la strada si fa sempre più frammentata, mentre aumenta il contrasto fra file di case nuove, tutte uguali, e i resti delle abitazioni sventrate, ruderi contemporanei. Tanto le prime quanto le seconde hanno un’aria di vuoto, di assenza: Accumoli, Arquata, Borgo, Piedilama, Pretare, sono tutti luoghi di silenzio, di una calma diversa da quella piacevole che trovi in montagna, più pesante, che fa venir voglia di andare via. Inizio la scalata, davanti al tozzo e squadrato profilo del Vettore, sempre uguale se non per una nuova crepa sulla parete rocciosa, che ha ormai sei anni, e di cui solo quelli del luogo si sono accorti.
Salgo e il panorama si apre sulla Piana di Castelluccio, la famosa tavola di campi coltivati che in primavera diventa una tavolozza variopinta, sempre più danneggiata dai wannabe influencer per la loro abitudine di calpestare i campi di lenticchie, nella faticosa ricerca di selfie da postare. Arrivo al rifugio Tito Zilioli, lascio lì alcune cose e proseguo per l’ultimo tratto fino alla vetta.
Si sale bene, la neve è perfetta e i ramponi hanno buona presa, così in breve sono in cima. Alle mie spalle il Redentore, davanti lo sguardo ha libertà di manovra e spazia sino alla punta già innevata del Gran Sasso, l’unica vetta “dolomitica” di tutto l’Appennino, solitario bambinone che proprio non vuol saperne di crescere.
Resto un po’ su e poi ridiscendo, è già sera ma c’è movimento vicino allo Zilioli. Lì incontro il primo dei cinque. Un ragazzo marchigiano, anche lui venuto per stare un po’ da solo: scambiamo due parole, io ho il tè e lui il caffè, non serve altro. Concordiamo di salire di nuovo assieme per l’alba, mentre lentamente fa buio, e quando stiamo per addormentarci e pensiamo che ormai non verrà più nessuno, bussano il secondo e la terza dei cinque. Anche loro erano venuti per lo stesso motivo. Hanno della grappa e delle torce, la Luna piena ha fatto il resto.
Decidono di salire subito in cima e di andare a vederla più da vicino, noi scegliamo di aspettarli lì al rifugio fino al loro ritorno per assicurarci che sia tutto a posto. Vanno e tornano, noi li salutiamo, loro proseguono per riscendere subito a valle. Sono le tre di notte, questa volta è davvero troppo tardi perché sbuchi qualche nuovo tapino... e infatti di lì a poco sentiamo dei passi avvicinarsi, e sul legno del rifugio bussa il quarto dei cinque. Era con gli amici ad Ascoli a fare un aperitivo, tornando a casa gli è venuta voglia di montagna, ha preso ramponi e zaino ed è venuto su, anche lui per lo stesso motivo.
Io e il primo dei cinque rinunciamo del tutto a un po’ di sonno, e decidiamo di iniziare a salire subito, tanto più che all’alba non manca ormai molto. Lasciamo il quarto dei cinque e usciamo, la nottata è perfetta: non un alito di vento, la Luna è un faro e illumina tutto, l’Orsa traccia la direzione della cima, nessun rumore, solo il rilassante crepitio dei nostri passi. Saliamo quasi in punta di piedi, galleggiamo sulla neve e in mezz’ora rapida siamo su. A pochi passi dal punto più alto incontriamo l’ultimo dei cinque, proveniente dall’altro fianco della montagna, anche lui per lo stesso motivo. Scambiamo poche parole, siamo tutti in attesa dell’alba, contenti e appagati, al rendez-vous di tutti i picchiatelli a sud del Po. Il Sole sbuca, tinge di rosso la Sibilla alle nostre spalle e inizia a sciogliere timidamente la neve autunnale, si scioglie anche la compagnia e iniziamo la ridiscesa. A valle prendiamo strade diverse, questa volta per motivi diversi.
Qualche settimana prima, quando la Luna era ancora nuova e non rubava la scena al cielo, in una notte sul Velino - sempre Appennini - mi era riuscito di guardare per l’ultima volta dell’anno la Via Lattea. Ogni volta che disegna il suo arco sopra la mia testa è facile lasciarsi andare a pensieri strani, di un’altezza buona per lei, ma decisamente fuori portata per noialtri pedoni.
Così fantasticavo e, galvanizzato dall’essere riuscito - allora - nel piano di voler restare un po’ solo con me stesso, la fissavo incantato, per poi essere interrotto da un lungo ringhio, seguito da tanti altri che mi pompano adrenalina e mi fanno rizzare tutti i peli del corpo. Per un attimo mi va il cuore a mille, poi ricordo che è settembre: è la stagione del bramito e sono probabilmente circondato da un innocuo branco di cervi. Mi calmo e i battiti rallentano.
Soli, mai. Siamo tutti qua sotto a vanificarci o sistemarci i piani a vicenda, e in fondo è un’idea incoraggiante.